Il corpo vissuto: l’embodiment tra Merleau-Ponty e lo Yoga
Connessione mente-corpo e illusione della separazione
“Sia che si tratti del corpo altrui o del mio proprio corpo, ho un solo modo di conoscere il corpo umano: viverlo, e cioè far mio il dramma che lo attraversa e confondermi con esso.” Maurice Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, Milano, Bompiani, 2003
Senza volermi addentrare in disquisizioni puramente filosofiche, che non possono trovare collocazione in questo spazio, vorrei però porre l’accento su una questione importante, centrale addirittura, dell’esperienza della pratica Yoga.
Ho voluto citare il grande (seppur molto poco ricordato) filosofo francese Merleau-Ponty perchè sviluppa un pensiero altamente innovativo nono solo rispetto ai suoi predecessori, ma anche rispetto a quelli che sono venuti dopo. Nella sua riflessione il corpo non è più oggetto tra gli oggetti ma diventa il centro della nostra esperienza del mondo.
Per Merleau-Ponty infatti non possiamo conoscere il corpo dall’esterno (come invece vorrebbe la scienza) perché siamo il nostro corpo. Non è un corpo che abbiamo, ma un corpo che siamo. E questa distinzione è importantissima per il ragionamento che seguirà.
É attraverso il nostro corpo che possiamo relazionarci con il mondo e possiamo conoscerlo, possiamo fare esperienza non solo di ciò che incontriamo esternamente, ma è lo spazio privilegiato anche dell’esperienza intellettuale. La conoscenza infatti non è mai puramente intellettuale ma sempre radicata nell’esperienza corporea.
Il corpo quindi è sempre presente, che ne siamo consapevoli o meno.
A partire da questa idea sono state molteplici ed enormi le diramazioni in diverse discipline: dalla psicologia alla storia dell’arte, alle teorie sulla conoscenza, passando per le neuroscienze e naturalmente influenzando anche una riflessione sulle PRATICHE CORPOREE.
Ecco. É proprio quest’ultimo ambito che voglio prendere in considerazione. Per come sono fatta non posso separare l’esperienza vissuta -nel corpo- da una riflessione su di essa e questo dialogo, un vero gioco infinito, è quello che muove ciò che faccio, ciò su cui rifletto.

Avevo poco più di vent’anni quando ho iniziato a praticare discipline corporee. Ma lo Yoga è entrato prepotentemente nella mia vita solo quando il mio capo di allora, mentre lavoravo per un’associazione culturale bolognese di cui curavo comunicazione e organizzazione eventi, mi faceva fare yoga tutti i giorni, nella sua piccola sala piena di parafernalia indiane.
Lo yoga è stato prima di tutto esperienza. É stato necessità ed è stato accompagnato da una scoperta progressiva di chi ero veramente.
Ovviamente la mia curiosità non si è fermata all’esplorazione corporea, ma mi sono velocemente interessata anche all’aspetto culturale e al pensiero che in qualche modo informava ciò che andavo a fare sul tappetino.
Ecco quindi che gli aspetti più filosofici hanno iniziato a prendere vita attraverso la pratica. Si sono incarnati, embodied.
Il concetto di embodiment nello yoga ha una profondità straordinaria. Ed è facile intuire come si possa mettere in relazione a quello di Merleau-Ponty: se è vero che gli strumenti sia dello yoga classico che quello del periodo Hatha Yoga siano vere e proprie “procedure” a supporto del pensiero filosofico, allora è proprio attraverso l’esercizio di queste procedure che dobbiamo in qualche modo elaborarli.
Dobbiamo quindi fare sì che questi concetti prendano vita, nel corpo, e si facciano carne. Questa idea di embodiment dei concetti passa naturalmente per l’esperienza corporea diretta. Ma a differenza dell’idea di Merleau-Ponty, non rimane solamente teorica o introspettiva.
Nello yoga, l’embodiment va oltre la riflessione filosofica per diventare un percorso trasformativo che coinvolge tutto l’essere. Grazie ad asana facciamo esperienza attiva della coscienza nel corpo, col pranayama accediamo ad una dimensione più sottile e possiamo mitigare gli effetti della mancanza di regolazione del sistema nervoso.
Ma i due aspetti più importanti a mio avviso sono la capacità da un lato di favorire l’attivazione di quello che in meditazione si può definire come “testimone”, e dall’altro di integrare non solo concettualmente mente e corpo. Con lo Yoga questa idea diventa viva e soprattutto si fa esperienza.
È proprio questo aspetto somatico, esperienziale, che rende lo yoga una via di conoscenza così potente e trasformativa. Non si tratta solo di comprendere intellettualmente il legame tra corpo e mente, ma di realizzare questa unità vissuta attraverso il proprio corpo.
Ecco perché la citazione di Merleau-Ponty “non ho altro modo di conoscere il corpo umano che viverlo” trova una risonanza così profonda nella filosofia e nella prassi dello yoga. Entrambi ci richiamano all’importanza dell’esperienza incarnata come fondamento della conoscenza.
C’è un ulteriore concetto che credo sia importante esplorare: Pratyaksha. In sanscrito questa parola fa riferimento alla conoscenza diretta, basata sull’esperienza della percezione.
Nello Yoga, la conoscenza può solo essere basata sull’incarnare i concetti con il tapas, l’ardore della pratica. E da vita ad una consapevolezza vissuta dell’essere incarnato.
Tutte le pratiche dello Hatha Yoga come pranayama, asana, dhyana servono a sviluppare questa stessa conoscenza esperienziale e interocettiva, che si poggia da un lato ma da anche vita all’intelligenza del corpo.
Ecco quindi che lo yoga diviene un cammino concreto, percorribile per attualizzare e dar vita alla frase di Merleau-Ponty “non ho altro modo di conoscere il corpo umano, che viverlo”.
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